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Chicago Marathon: quando il piano A salta

Chicago è una di quelle maratone da sogno. Città fantastica (la più bella degli USA, dicono), pubblico che ti spinge, percorso piatto. Peccato per il vento, dicono; ma quest’anno non c’è nemmeno quello!

Io ci arrivo pronto, concentrato e con la sensazione di poter fare una bella gara.

Il giorno prima lo passo tra ritiro pettorale, un giro leggero per la città e la voglia crescente di farla bene, al massimo delle possibilità.

Conosco anche alcuni ragazzi allenati dal mio stesso coach con i quali scambiavamo impressioni a consigli da un po’: simpatici, determinati anche loro a sfruttare a pieno l’opportunità. Già quello vale il viaggio.

La mattina della gara la sveglia non suona nemmeno visto che con il jet lag sono già in piedi da ore.

Grant Park è buio e con ancora poche persone silenziose, ognuno perso nei propri pensieri. Poi, lentamente, arriva la luce e persone ovunque.

Mi hanno messo in una wave che non è la mia, sicuramente troppo veloce per il mio ritmo ma poco male, basta non farsi prendere la mano.

Alle 7:25, inno nazionale che anche se non è il mio fa sempre un certo effetto.

Si parte.

I primi chilometri scorrono lisci, quasi troppo lisci con passo da PB abbondante.

Al 24° però qualcosa si rompe: un dolore all’anca sinistra; inizio a correre male e attorno al 30° iniziano i crampi alla gamba destra. Quadricipite e femorale insieme.

Provo a mantenere un passo regolare, ma di chilometri ne mancano ancora tanti: é chiaro che il piano A — il PB — finisce lì.

Passo al piano B: chiudere entro le 3:10. Bastano pochi chilometri però per capire che anche quello non é raggiungibile. Ogni chilometro devo camminare un po’ per evitare i crampi e per tenere sotto controllo il dolore all’anca.

Obiettivo C: arrivare sotto le 3:30, cercando di non pensare al D. Sarei arrivato comunque, di quello sono certo, anche camminandola tutta, e per una volta non mi sarei lamentato degli altissimi tempi limite delle Major.

Continuato camminando a tratti, stringendo i denti, e negli ultimi due chilometri rimetto insieme qualcosa correndo a un buon ritmo.

Chiusa in 3:24, la mia peggior Major; di gran lunga. Ma una Major finita, comunque.

Durante quei chilometri storti mi è venuto da chiedermi: chi me l’ha fatto fare?
Con tutti i sacrifici, non solo miei, e le rinunce. Ma la verità è che queste domande arrivano solo quando il risultato non va come volevi. La fatica, in fondo, è la stessa e il valore pure. Cambia solo il numero sul cronometro.

Non ho ancora digerito la gara. Ho la sensazione di essermi perso qualcosa, di non essermela goduta a pieno; perché, da quando essere qui — a Chicago, a correre una Major — non basta?

Forse ho caricato troppo di aspettative questa volta.
Ora si torna alla vita normale. Le cose rimandate a “dopo Chicago” sono lì che aspettano. 💪🏻

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Alex
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